fermarsi per poi ripartire dopo il coronavirus

L’importanza di fermarsi: coronavirus, coping e il buono delle crisi

Fermarsi per ripartire.

Lo ammetto, forse questo articolo nasce per scusarmi della mia indolenza. Perché è così: da quando è iniziata la quarantena, rimanere in attività per me è incredibilmente difficile.

I primi giorni, lo ammetto, non è stato così: le emozioni, positive o negative che fossero, erano forti. Fortissime. Penso che tutti ci ricorderemo per sempre quel sabato sera, il sabato della grande fuga. Fuga di notizie, fuga dal Nord, fuga verso casa. Fuga nella speranza di non cambiare, di conservare qualcosa del nostro mondo conosciuto. Ma il nostro mondo conosciuto non era ad aspettarci alla fine della nostra corsa. E così è iniziata l’apocalisse.

Negli occhi ho ancora il salottino di casa di un amico da cui ero andata a cena la sera della fuga, noi attorno alla tv e poi con gli sguardi sugli smartphone, non ognuno per i fatti suoi, ma tutti a parlare, a confrontarci, a cercare di capire. Si chiama lightbulb memory, memoria fotografica. Una fotografia mentale di un avvenimento che cambia l’asse del nostro mondo. Ognuno ne ha un paio. Eventi come il primo bacio, il giorno del trasloco, un nuovo inizio in una nuova città. Per me, la prima lightbulb memory in termini cronologici è stato il primo giorno di prima elementare, che è coinciso con l’11 settembre. Momenti simbolici che fanno parte della nostra storia come esseri umani, che segnano delle epoche.

E così dall’oggi al domani ci siamo trovati chiusi in casa. Non che nelle due settimane precedenti si fosse vissuto come prima. Le scuole erano chiuse, il mio posto di lavoro aveva attivato lo smart-working, c’era meno gente in giro. Ma c’era quell’aria di vabbè, chissà, magari domani finisce, la situazione non sarà così grave, figuriamoci.

C’era resistenza al cambiamento, a un cambiamento che fa paura sempre, figuriamoci in questi casi. Ma il cambiamento non perdona, il cambiamento travolge e quando vuole arrivare si fa sentire: e così eccoci a essere catapultati di colpo nella Storia.

Segue una prima settimana strana, sospesa. Ognuno ha reagito a suo modo. E le iniziative si sono moltiplicate, affiancando al #nonmifermo il #restoacasa (bellissima contrazione concettuale, gli hashtag): #mifermomamiformo, #mifermomainforma. Si sono propagati sul web decine e decine di webinar su tutto, dal digital marketing alla cucina allo yoga.

Non volendo entrare nella diatriba a mio parere un po’ sterile sul fatto che queste iniziative siano frutto di nobile solidarietà o di marketing, voglio fare un’ammissione di colpa: questo slancio ipomaniacale, questa ebbrezza di ripartire subito, di non fermarsi nemmeno un attimo, di correre verso un nuovo obiettivo, mi ha spaventata. E mi ha fatta sentire in colpa. Perché non avevo tutte quelle energie? Perché il mio vicino di casa condivide entusiasta il corso di aramaico che ha iniziato in quarantena e io non riesco a alzarmi dal letto? Quando questo finirà, sarò rimasta indietro rispetto agli altri? Poi, dal momento che riflettere sulle emozioni altrui è il mio lavoro, ho pensato di riflettere sulle mie. Quello che ne è nato è questa riflessione sulla necessità di fermarsi.

Tra stress, distress e eustress

Iniziamo a riflettere a partire da una delle parole più in voga del XXI secolo: stress.

Lo stress è una reazione del corpo provocata dal bisogno di adattamento a uno stimolo che minaccia il suo equilibrio (Selye, 1956): tale stimolo, detto stressor, innesca una reazione del tutto naturale, che però alla lunga può diventare dannoso per l’organismo e anche distruggerlo. Tutti, continuamente, siamo esposti a stressor di varia natura; se qualcuno ci chiede come va, quasi sempre rispondiamo che “siamo stressati”. Lo stress non è per forza negativo, esistono infatti due tipi di stress:

  • Distress: qui non c’è nulla da fare, è proprio lo stress negativo. Spesso protratto per molto tempo e troppo pesante per l’organismo, può avere delle conseguenze molto spiacevoli;
  • Eustress: questo invece è lo stress positivo. Una condizione di stress ridotta, accettabile per l’organismo e temporanea genera sensazioni di benessere quando esso diminuisce e costituisce un fattore motivante per la crescita personale.

La nostra vita quotidiana è piena di stressor detti normativi. La coda al semaforo, la cassa automatica che non va, il collega antipatico, la multa per divieto di sosta, sono tutti stressor normativi. Quello che stiamo vivendo è uno stressor non normativo, un modo molto accademico per dire che stiamo vivendo un evento unico, epocale. Un vero e proprio shock, una crisi. Un cambiamento improvviso, enorme, che ci cambierà inevitabilmente.

Il coping

Ognuno alla crisi reagisce a suo modo. Questo modo di reagire allo stress si chiama coping (Lazarus, 1988): un processo adattivo attuato dall’organismo per eliminare, ridurre e cambiare la situazione di stress. In particolare si distinguono:

  • strategie di coping: le modalità con cui la persona reagisce all’evento. Ne esistono ben otto, alcune delle quali sono più adattive, altre molto meno.
  • stili di coping: tratti stabili di personalità in base ai quali le persone decidono come agire. Alcuni sono molto attivi, altri tendono a fuggire: sebbene si possa cambiare in base alle situazioni, la tendenza a una reazione o a un’altra fa parte delle caratteristiche individuali.
  • risorse di coping: tutto ciò a cui il soggetto si può appoggiare per risolvere la situazione. Sono le risorse individuali, sociali e materiali che ogni individuo possiede.

Il modo in cui abbiamo agito e in cui stiamo agendo in questo periodo è determinato da questi fattori. Il COVID-19, con l’isolamento sociale, la crisi e tutto quello che ne deriva e ne deriverà, è quanto di più stressante ci potesse succedere, come persone, professionisti, genitori, figli. Stress aggravato dal fatto che l’unica cosa che ci può proteggere è l’isolamento sociale, quando tra le risorse di coping una delle più importanti è l’appoggio sociale. Quando ci troviamo in difficoltà siamo portati a rivolgerci ai nostri pari; oggi dai nostri pari dobbiamo stare lontani.

La conseguenza è che qualcuno si è attivato, lanciandosi negli eventi di formazione più disparati e imparando a fare tantissime cose. Non sto dicendo che questo sia condannabile, anzi. La riflessione che mi sorge spontanea è un’altra: la nostra società mette al primo posto la produttività. Il mantra è “non ho tempo” e “devo lavorare”: raramente ci è consentito di fermarsi, prendere fiato, riflettere. La nostra vita è Business First; chi non vive in questo modo si trova duramente giudicato. Lo slancio attivo e produttivo è talmente potente che si è riflesso anche in questa fase: il lockdown è un’occasione in più di affermare la propria produttività nonostante tutto.

Questo slancio oggi ha un significato diverso: oggi è un modo per fronteggiare la crisi. Essere attivi è una strategia di coping, un modo per affermare di essere ancora vivi.

Da questo consegue una conclusione che non è solo importante, è fondamentale: il coping è sempre valido. Il coping serve a stare bene e a adattarsi alla situazione stressante: il suo obiettivo non è produrre, ma affrontare e superare le difficoltà. Se essere attivi ci fa sentire bene, questo è un bene.

Ma se a farci star bene è il decidere di fermarsi, va bene lo stesso. Se ci fa stare bene leggere un romanzo, chiacchierare in famiglia, tenere un diario, va bene. Va bene anche se ci fa stare bene svegliarsi alle undici e guardare dalla finestra.

La crisi necessaria per fermarsi

Quella che stiamo vivendo oggi non è una situazione normale: è una crisi, nel suo senso greco del termine, nel suo senso di momento risolutivo e benzina del cambiamento. Ed ognuno reagisce a questo momento come può, come riesce, come è più giusto per sé stesso.

Che impariamo il russo o che trascorriamo la giornata a guardare Netflix, in nessun caso questo tempo è sprecato. Di cambiamento se ne parlerà tanto e se ne è anche parlato tanto prima del COVID-19, quasi sempre nei termini di come cambiare agilmente e continuamente: quello che è importante per cambiare veramente, però, è fermarsi e tirare il fiato. Tirare il fiato che non vuol dire impigrirci e fissarci sul passato, ma concederci di riflettere veramente, di rifletterci, di capire che strada vogliamo tenere dopo il cambiamento, che sia un nuovo posto di lavoro, una svolta nella nostra relazione, un aggiustamento delle nostre priorità. E anche ricaricare le energie, prima di buttarci di nuovo nelle rapide della nostra vita.


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