Psicologia del pianto
Il pianto può avere diversi significati: può derivare da gioia, da sollievo o da dolore. Se in passato l’atto del piangere poteva assumere accezione negativa ed indicativa di debolezza, ad oggi concedersi un pianto liberatorio non è sinonimo di debolezza e di vergogna e può essere veicolo di preziose informazioni rispetto a noi stessi.
La psicologia del pianto ha ricevuto tuttavia ridotto spazio, ma risulta interessante analizzare le principali teorie psicologiche rispetto all’atto del pianto.
Perché piangiamo?
Da un punto di vista fisiologico, il pianto può essere definito come una complessa risposta secreto-motoria, caratterizzata dallo spargimento di lacrime dall’apparato lacrimale, senza alcuna irritazione delle strutture oculari.
Il pianto è spesso accompagnato da alterazioni dei muscoli coinvolti nell’espressione facciale, vocalizzazioni e in alcuni casi singhiozzi. Esso rappresenta una modalità universale e tipicamente umana per esprimere le emozioni ed è parte integrante del life span. Nel corso della nostra vita, gli eventi emotivi più importanti possono essere accompagnati da pianto, sia che essi siano positivi (ad es. Matrimoni, nascita di un bambino o spettacoli di successo) oppure negativi (ad es. perdita di persone care o beni preziosi, o eventi importanti non riusciti).
Così, dal pianto di un neonato rappresentato da una modalità comunicativa finalizzata a garantire la sua sopravvivenza, il contatto con i suoi simili, attenzione, cure, consolazione e affetto, il pianto stesso cresce e matura insieme a noi, svolgendo funzioni diverse, tutte utili e interessanti.
Le conseguenze del pianto
La letteratura scientifica che ha indagato maggiormente il pianto adulto postula due possibili principali funzioni del fenomeno:
- catarsi e recupero emotivo (identificandone quindi le funzioni “intra-personali”);
- (2) richiesta di soccorso dall’esterno, il che si traduce in una perturbazione del comportamento in corso degli altri, affinché la loro attenzione sia spostata sulla persona che piange, favorendo risposte pro-sociali (le funzioni “inter-personali“).
Questa distinzione si riflette anche nel modello di Shariff e Tracy (2011), che, basandosi sulla proposta di Darwin (1872), distinguono due reazioni emotive fra loro differenti:
- preparare l’organismo a rispondere in modo adattivo alle acute esigenze ambientali;
- comunicare informazioni critiche ad altri.
Ne deriva allora come questo modello suggerisca che ogni espressione emotiva potrebbe avere (anche solo inizialmente) una funzione intrapersonale che, successivamente, si evolve in una funzione interpersonale.
Nell’analisi della funzione intra-personale del pianto, una persona può sperimentare un miglioramento dell’umore (che viene spesso indicato con il termine catarsi) non come diretto risultato del pianto, ma piuttosto perché ha ricevuto aiuto da altri, conseguentemente alla sua comunicazione.
Diversamente, la persona che piange può sperimentare una sensazione di sollievo in risultato di una reazione somatica che si verifica nel passaggio ad uno stile di coping più passivo. Infatti, chiedere aiuto o arrendersi in un conflitto presuppone una attivazione fisiologica meno dispendiosa (ad es. In termini di riduzione dei costi metabolici e interruzione di attività pericolose o inutili) e degli sforzi cognitivi minori rispetto al tentativo di risolvere attivamente la situazione da soli o insistendo su ulteriori conflitti.
Pertanto, la sensazione di sollievo che può seguire il pianto rappresenta una conseguenza di una scelta meno costosa in termini energetici.
Altre ricerche invece ipotizzano un ruolo di possibili meccanismi fisiologici (ad es. oppioidi endogeni, ossitocina), cognitivi (che vanno dai pregiudizi alle strategie di regolazione delle emozioni cognitive), comportamentali (ad es. interrompere le attività in corso e cercare di rilassarsi) o sociali (ad es. ricevere conforto dagli altri). Fatta eccezione per le conseguenze sociali delle lacrime, questi potenziali effetti non sembrano rappresentare una funzione evoluta delle lacrime, ma dovrebbero piuttosto essere considerati un sottoprodotto dei meccanismi coinvolti nei processi concorrenti.
Infine, studi più recenti suggeriscono come il pianto non comporti necessariamente benefici per l’umore, in quanto i suoi effetti dipendono da specifici fattori collegati all’individuo che piange, all’evento scatenante e, in particolare, alle reazioni degli osservatori.
Ad esempio, in caso di conclamati disturbi d’ansia o depressivi in cui risulta essere più frequente, non si osserva particolare beneficio a seguito del pianto. Inoltre, le situazioni specifiche che ci fanno piangere possono essere decisive: eventi negativi incontrollabili (ad es. La morte di un caro) con minore probabilità saranno seguiti da una sensazione di dare sollievo, rispetto a situazioni più controllabili (ad es. una situazione conflittuale).
In conclusione, di particolare importanza è il modo in cui gli altri rispondono alle lacrime: se gli osservatori reagiscono con comprensione e conforto, il risultato sarà completamente diverso rispetto a quando reagiscono con disapprovazione e irritazione. Più sinteticamente, oltre all’evento che ha suscitato il pianto, anche altri fattori, come le differenze individuali e le caratteristiche situazionali, svolgono un ruolo importante nel determinate il comportamento del pianto.
Nonostante i risultati in letteratura siano fra loro discordanti e ancora non universalmente accettati, in molte culture e periodi storici, l’idea che le lacrime abbiano la capacità di alleviare il dolore sembra più comune e diffusa del suo contrario (cioè, che le lacrime aumentano il dolore di un individuo).
Infatti, quando si perde un importante legame affettivo, la risposta emotiva del pianto può facilitare espressioni che aiutano a ristabilire quel legame. Nel caso invece di un lutto irreversibile, il pianto può invece può favorire una iperfocalizzazione sul proprio stato emotivo, che può essere vissuto come una sensazione di benessere che compensa la perdita originale. Gli adulti hanno la capacità di regolare le proprie emozioni ed espressioni emotive.
Per quello che concerne le funzioni inter-personali del pianto, è possibile distinguere due tipi di reazioni alle espressioni emotive in generale:
- reazioni affettive, che possono favorire una reciprocità emotiva (ad esempio contagio emotivo, presa di prospettiva, valutazione sociale) o complementare (es. rabbia può indurre la paura, la tristezza può scatenare reazioni di rabbia, ecc.);
- inferenze sulla persona che piange e sulla situazione in cui si trova, in risultato di processi cognitivi più consapevoli.
Ad esempio, sulla base delle informazioni desunte da un’espressione emotiva, gli osservatori possono trarre conclusioni su come la persona che piange ha valutato la situazione, la sua personalità, lo stato sociale, i motivi sociali e le specifiche intenzioni comportamentali.
Entrambi le reazioni determinano successivamente delle risposte comportamentali in colui che osserva.
Il valore del pianto
Numerosi studi confermano che le lacrime hanno un chiaro valore sociale, rafforzando la percezione che la persona in questione sia triste ed indifesa e suscitando empatia. Di conseguenza, le persone sembrano più disposte ad aiutare una persona che piange. Ciò è chiaramente in linea con l’idea che le lacrime rappresentino un adattamento evoluto che facilita il comportamento di aiuto negli altri.
Inoltre, gli individui che piangono sono generalmente percepiti come caldi, empatici, affidabili, sinceri e meno aggressivi, il che riflette tutte le intenzioni prosociali. Al tempo stesso, possono essere percepiti come meno emotivamente stabili, incompetenti e deboli. In altre parole, gli individui in lacrime suscitano valutazioni più positive, ma quando gli osservatori stessi hanno bisogno di aiuto, sembrano evitare gli individui che piangono. Dunque, le lacrime sottolineano l’impotenza e la necessità di sostegno, promuovendo anche sentimenti di empatia e connessione sociale negli osservatori.
Non è necessario che capiti necessariamente qualcosa di brutto né di avere un umore depresso. Alle volte, può capitare di piangere anche come reazione ad un senso di stanchezza e sfinimento, e questa semplice azione può essere estremamente sana.
Da un punto di vista psicologico, esso deve rappresentare una sorta di “campanello d’allarme” della nostra coscienza e la sua contestualizzazione all’interno della personale storia di vita può consentire la comprensione dei motivi che ci hanno sopraffatti. Su un piano esperienziale, il pianto può talvolta chiarirci le idee, permettendoci di vedere le cose con maggiore chiarezza e mettere in moto nuovi comportamenti e modi di essere che consentano un miglior adattamento all’ambiente che ci circonda.
Perché è difficile chiedere aiuto?
Le difficoltà quotidiane, le preoccupazioni spesso richiedono il bisogno di sentimenti di solitudine in cui poter sfogare le nostre tensioni, eppure difficilmente ci concediamo questo spazio.
Perché il pianto ci fa sentire così vulnerabili di fronte agli altri? Perché delle volte risulta così difficile chiedere aiuto?
Quando gestire il peso delle emozioni diviene eccessivo, è utile richiedere un sostegno ad una persona esterna come un parente o un amico fidato o prendere in considerazione la possibilità di fare un percorso strutturato con una figura specializzata come quella dello psicologo. Chiedere aiuto non è indice di vulnerabilità e di debolezza e solo un’emozione espressa, più intellegibile per noi, consente l’apertura di nuovi spazi di esperienza e nuovi orizzonti d’attesa.
Bibliografia
- Balsters, M. J., Krahmer, E. J., Swerts, M. G., & Vingerhoets, A. J. (2013). Emotional tears facilitate the recognition of sadness and the perceived need for social support. Evolutionary Psychology, 11(1), 147470491301100114.
- Darwin, C. (1872). The expression of emotions in animals and man. New York: Oxford University Press (1998 edition, with an introduction, afterword, and commentaries by P. Ekman).
- Gračanin, A., Bylsma, L. M., & Vingerhoets, A. J. (2018). Why only humans shed emotional tears. Human Nature, 29(2), 104-133.
- Huron, D. (2018). On the functions of sadness and grief. In The Function of Emotions (pp. 59-91). Springer, Cham.
- Shariff, A. F., & Tracy, J. L. (2011). What are emotion expressions for? Current Directions in Psychological Science, 20, 395–399.
- Vingerhoets, A. J. J. M., Bylsma, L., & Rottenberg, J. (2009). Crying: A biopsychosocial phenomenon. In T. Fogen (Ed.), Tears in the Graeco-Roman world (pp. 439-475). de Guyter.
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Irene Mosca
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