La psicoanalisi nell’arte: Marcel Duchamp

La psicoanalisi e l’arte possono essere viste come due fiumi che scorrono lungo i medesimi pendii, collegati da ponti i cui assi sono l’inconscio, l’osservazione, l’immaginazione, la creatività e la rappresentabilità.

Per denotare quegli stati della mente che sono necessari per qualsiasi forma di creatività, un importante psicoanalista, W.R. Bion, ha fatto ricorso alla nozione di Keats di “capacità negativa”.  E’ soltanto nello stato di “not knowing” che ci si apre a possibili movimenti trasformativi. L’analista ed il paziente possono essere incapaci di ascoltare e di vedere cose nuove e possono rifugiarsi nel già noto, bloccando qualsiasi sviluppo. L’apertura all’esperienza del vuoto o del nuovo, che è richiesta nell’arte e nella psicoanalisi, non è data. La ricerca del non finito è sempre oggetto di fascinazione, ma allo stesso tempo anche di angoscia e di rifiuto, riguarda uno stato di apprensione per un pericolo indefinito ed indefinibile.

L’artista, non diversamente da chi compie il lavoro analitico, è costretto a disfare tutto quello che conformismo, pensiero logico e consuetudini hanno sedimentato in lui, per ritornare all’origine dove ciò che è realmente esistito è depositato e sentito come vero. Allora, soltanto allora, che il pensiero ritrova la sua funzione, ed appare possibile il divenire e l’attività creativa.

E’ dall’esperienza interiore che si estrae con fatica e travaglio l’opera d’arte, con lo stesso procedimento con cui in analisi ci si avvicina alla “pensabilità”, attraverso un flusso che dal sentire va al pensare e dal pensare nuovamente al sentire.  Si tratta di quel percorso di approfondimento ed elaborazione che l’analista favorisce e l’artista mostra attraverso le sue opere.  In tal senso, la creatività è la maniera che ha l’individuo di incontrarsi con la propria realtà e verità ed allo stesso tempo potersi aprire ed incontrare quella esterna.

Laddove la capacità e la possibilità di rappresentare, creare simboli e metafore è compromessa o persino assente, dove è carente la complessa funzione della “figurabilità psichica” (Botella, Botella, 2001), e dove quindi risultano compromesse le possibilità di trasformazione (Bion, 1962) della mente, va da sé che la creatività risulti deficitaria se non impossibile e si perviene ad una posizione di stallo, di scacco.

In tale cornice appare particolarmente interessante considerare l’opera di Marcel Duchamp (1887-1968, franco-americano), l’artista che con Picasso e Cézanne ha maggiormente influenzato gli sviluppi dell’arte contemporanea. Pittore, artista, uomo di lettere, scacchista e secondo il padre del surrealismo, André Breton: “l’uomo più intelligente del secolo”.

Marcel nasce a Blainville, paesino della Normandia a 20 km da Rouen. La famiglia appartiene alla buona borghesia provinciale. Il padre è notaio, ed il nonno materno era pittore e incisore. Ed è una famiglia numerosa, 3 figli Gaston, Raymond e Marcel e tre figlie Suzanne, Yvonne e Magdleine. Gaston, contro i voleri del padre, diventa pittore e incisore, Raymond scultore (sarà poi l’unico scultore cubista), ed anche Suzanne sulla scia dei fratelli diventerà pittrice e sposerà in seconde nozze il pittore dadaista Joan Crotti.

Marcel comincia a giocare a scacchi a 11 con i due fratelli e comincerà a dipingere a 15. Il suo stile pittorico iniziale è impressionista come dirà in un’intervista a Pierre Cabanne nel 1967, dal 1902 al 1910 ebbe “8 anni di lezioni di nuoto” per saper galleggiare nel mare magnum della pittura.  A 17 anni (1904) si diploma al Liceo di Rouen in filosofia e letteratura. Nel medesimo anno si traferisce a Parigi nel quartiere Montmartre, dove vivevano artisti come Picasso, Marcoussis, Kupka. Ma Marcel non li frequenta perché ancora lontano dalla pittura impegnata. Nel 1905 cerca di entrare all’Accademia della Belle Arti ma fallisce la prova di ammissione ed è per lui una grossa delusione.

Nel 1907 partecipa al “Salone degli Artisti umoristi” di Parigi. Nel 1908 lascia Montmartre per Neully paesino vicino Parigi. Da notare che in quegli anni la parola “cubismo” verrà usata per la prima volta dopo la mostra di Braque, alla Galleria Kahnweiler dal critico Louis Vauxcelles. Picasso in quello stesso anno aveva terminato il dipinto “Les demoiselles d’Avignon”, che non aveva ancora esposto.

Nel 1909 inizia la vita ufficiale del pittore Marcel Duchamp che partecipa al Salone degli Indipendenti con due tele. Nel 1967, confessa a Cabanne, che iniziò a dipingere per avere una certa “libertà” e che “la mattina non voleva andare in ufficio”.

Le prime opere sono di stile postimpressionista ma è principalmente ricordato per le sue idee iconoclastiche e radicali che precorrono la nascita del movimento Dada, che avverrà a Zurigo nel 1916. Allo stesso tempo nella sua produzione sono rintracciabili punti di contatto con il Movimento Futurista.

Nel 1912 realizza il quadro “Nudo che scende le scale n. 2”, in cui combina la sua conoscenza della pittura cubista, con una ricerca della rappresentazione del movimento, il soggetto viene scomposto ma la visione nello stesso istante è costituita da più punti di vista. Il dipinto si articola con una sovrapposizione della figura in movimento contro lo sfondo. La figura dinamica è maggiormente chiara e avanza, percettivamente, mentre lo sfondo è scuro e arretra. Il dipinto raffigura un nudo (dettaglio chiarito dal titolo del dipinto), ma ad un primo impatto non si riesce a riconoscere un nudo vero e proprio, e di quale genere sia questo nudo. Diversamente, le parti distinguibili del corpo della figura, composte da elementi astratti conici e cilindrici, ricordano più quelli di un robot. Questi elementi sono assemblati in maniera tale da suggerire un ritmo che ci comunica un movimento. La figura del nudo è ripresa nei diversi momenti dell’azione, così da rendere percettibile in un batter d’occhio la successione di intervalli temporali.

Seguendo Octavio Paz “il nudo si ispira a preoccupazioni affini a quelle dei futuristi: l’ambizione di rappresentare il movimento, la visione disintegrata dello spazio, il culto della macchina…ma la somiglianza è solo apparente: i futuristi volevano suggerire il movimento mediante una pittura dinamica, Duchamp applica la nozione di ritardo – ovvero: l’analisi del movimento….non pretende di dare l’illusione del movimento, ma di scomporlo e offrire una rappresentazione statica di un oggetto mutevole. E’ vero che anche il futurismo si oppone alla concezione dell’oggetto immobile ma Duchamp supera immobilità e movimento, li fonde per meglio dissolverli. Il Futurismo è interessato alla sensazione: Duchamp all’idea e alla ricerca interna. Ciò in due sensi: riflessione sulla parte interna di un oggetto e riflessione interiore, autoanalisi. L’oggetto è una metafora, una rappresentazione di Duchamp: la sua riflessione sull’oggetto è anche una meditazione su stesso. Da ciò deriva la pluralità di significati e di punti di vista di un opera come il Nudo…ed evidenti le analogie con la psicoanalisi.

Dal 1913, abbandonati la pittura e il disegno tradizionali, si dedica a forme d’arte sperimentali elaborando disegni meccanici, studi e annotazioni che verranno inclusi nella sua grande opera in gran parte realizzata a New York.

Avendo letto e studiato le teorie di fisica, che postulavano l’esistenza di una quarta dimensione, Duchamp tenterà di rappresentare tutto questo all’interno della sua arte. La durata di questa ricerca va dal 1915 al 1923, anno, quest’ultimo, in cui presenterà l’opera che sarà il punto focale della sua intera produzione: “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche” (titolo originale Mariée mise à nu par ses célibataires, même), più nota come “Il grande vetro” (Le Grand Verre). L’opera è considerata una delle più importanti della prima maturità di Duchamp e si compone di due lastre di vetro disposte l’una sull’altra, sulle quali sono raffigurati diversi dispositivi meccanici e figure che rappresentano, nell’insieme, un amore impossibile fra una sposa e il suo corteggiatore. Mise nu non vuol dire esattamente denudata o svestita; è un’espressione molto più energica: messa a nudo, esposta. Impossibile non associarla a un atto pubblico o a un rito: il teatro (mise en scéne), l’esecuzione capitale (mise en mort), la collocazione all’abisso (mise en abyme). L’uso della parola scapolo (célibataire) invece di quella più consueta, fidanzato o pretendente, indica una separazione invalicabile tra il femminile e il maschile: lo scapolo non è nemmeno un pretendente e la sposa non verrà mai sposata. Il plurale e il possessivo accentuano l’inferiorità dei maschi: più che un insieme di persone un gregge. Si è molto discusso dell’avverbio anche (in francese même). Secondo alcuni contiene un’allusione fonetica in francese (m’aime), mi ama. La Sposa secondo questi sarebbe la stessa sorella Suzanne e lo scapolo Marcel. Ma Duchamp ha sempre negato ed anzi avrebbe aggiunto l’avverbio proprio perché privo di ogni significato, solo come effetto spiazzante.

Questa creazione ci interessa in particolare per quanto ci dice sul significato del tempo nella sua dimensione interna all’opera, nella relazione con lo spazio e con il tempo interno di chi la osserva e molte sono le letture che sono state proposte. Arturo Schwarz,  tra i maggiori studiosi di Duchamp, vede rappresentate le pulsioni  degli scapoli (nella dimensione terrestre) da un lato, e quelle della sposa (nella dimensione celeste) dall’altro, ma queste pulsioni sembrano incontrarsi o proiettare un’ombra del loro incontro solo nella parte del vetro che separa le due dimensioni, e questa separazione simboleggia uno ostacolo al soddisfacimento e nelle parole di Paolo Perrotti esprime il senso di una perdita.  Il Grande Vetro serve come una proiezione della quarta dimensione all’interno del nostro mondo tridimensionale, e noi spettatori, osservando l’opera, ne diventiamo consapevoli. La quarta dimensione può essere la dimensione erotica, ma c’è abbraccio? La domanda, prima di ricevere una risposta, secondo Paz svanisce nella trasparenza del Grande Vetro. Il tempo che l’attraversa tuttavia a parer di chi scrive continua a giocare un ruolo attivo nello spettatore.

Facendo un passo indietro e tornando al 1913, anno spartiacque, si può dire che da lì in poi, Duchamp abbandona le forme convenzionali della pittura. Inizia il suo tentativo di sostituire la “pittura-pittura”, con la “pittura-idea”. La negazione della pittura che chiama olfattiva (per il suo odore di trementina), retinica (puramente visiva) e tattile fu l’inizio della sua vera “opera”. Un’opera che avrà spesso un’ambiguità voluta nel titolo (disorientante), ed una rielaborazione concettuale. Duchamp, è difatti ricordato come l’ideatore del ready-made, cioè l’esposizione di oggetti d’uso quotidiano, “già realizzati”, proposti provocatoriamente come opere d’arte. In questa operazione, l’oggetto d’uso subisce un processo di trasfigurazione, esso viene svuotato non solo del suo contenuto, ma soprattutto della sua destinazione abituale per divenire un oggetto capace di organizzare il vuoto ed al contempo elevare un pensiero ed attivare una pensabilità. Processo non dissimile da quello che ci si propone con il lavoro analitico.

I più celebri tra questi oggetti sono senz’altro la ruota di bicicletta fissata su uno sgabello (Rue de bicyclette, 1913) in cui formulò l’enunciato rivoluzionario per cui una pura operazione mentale di scelta trasforma un oggetto comune in opera d’arte, poi lo scolabottiglie (Égouttoir, 1915), e l’orinatoio capovolto e posato su di un piedistallo (Fountain, 1917).  Si tratta di un’operazione di pura nominazione con la quale Duchamp annulla l’oggetto nella sua funzione contingente per renderlo atemporale in forma di simbolo. Questo mutamento – dall’“apparenza” alla “concezione” – segnò l’inizio dell’arte moderna e l’inizio dell’arte concettuale.

In un suo scritto “À propos des readymade”, Duchamp, specifica meglio tale innovazione e presenta alcune riflessioni fondamentali sul suo lavoro. La più rilevante riguarda il senso stesso della scelta del ready-made, guidata non da gusto estetico ma, al contrario, da quella che viene definita «indifferenza visiva» (indifférence visuelle): “Un punto che voglio stabilire molto chiaramente, è che la scelta di questi ready-made non mi fu mai dettata da un qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita allo stesso tempo a un’assenza totale di buono o cattivo gusto… di fatto un’anestesia completa”.

Ed in ciò si innesta un altro tema privilegiato della ricerca di Duchamp: il silenzio inteso come auto-privazione da parte di una forma artistica del suo principale canale espressivo. In psicoanalisi, Bion ha raccomandato agli analisti di essere senza memoria e senza desiderio e di avvicinarsi il più possibile a uno stato di vuoto interno, per lasciar affiorare i pensieri suscitati dal discorso del paziente. Tale raccomandazione va intesa nel senso di rendersi il più possibile disponibili a intendere quello che il paziente ha da dire di nuovo. Un assetto che Duchamp scelse ponendosi dinanzi agli oggetti riuscendo di fatto a proporre qualcosa di radicalmente nuovo.

Nel silenzio creativo si rifugiò poi Duchamp stesso ritirandosi dal mondo dell’arte per dedicarsi interamente, o quasi, al gioco degli scacchi. Un suo motto era: «I pezzi degli scacchi sono l’alfabeto che plasma i pensieri, e questi pensieri esprimono la bellezza astrattamente.» Come è facile comprendere, la scacchiera: ordinata e semplice nella sua dicotomia in bianco e nero, complessa nelle innumerevoli combinazioni delle infinite partite ed altresì il gioco di analisi e pazienza e il dialogo silenzioso, non potevano non catturare l’attenzione di Duchamp. Riferimenti agli scacchi si trovano nelle sue opere, segnatamente il Portrait de joueurs d’échecs  del ‘10 , in cui si richiama a Cézanne, e il Portrait of chess players, dell’anno successivo, esempio di cubismo analitico.

La sua ossessione per gli scacchi divenne sempre più forte col passare degli anni, e proprio riguardo al suo matrimonio nel 1927, un amico, Man Ray (grande esponente del surrealismo), scrisse: “Duchamp passò la maggior parte della settimana del viaggio di nozze a studiare problemi di scacchi, e sua moglie per la disperazione si vendicò alzandosi una notte mentre egli dormiva e incollò tutti i pezzi alla scacchiera. Divorziarono tre mesi dopo.”

Forse è stato proprio questo aneddoto a suggerire a Julian Wasser l’idea della famosa foto del giocatore di scacchi, talmente concentrato sulla sua partita da non accorgersi che il proprio avversario è una bellissima donna nuda (la modella Eve Babitz). Il corpo nudo della giocatrice sembra non distrarre Duchamp dalla scacchiera, come se l’indubbia attrazione che può essere stata esercitata sui suoi sensi da quella bellezza e nudità svelata fosse vinta o resa pudica da un pensiero capace di concentrazione totale, ricolmo di sé.

Per la sua ironia ed irriverenza da ultimo si ricorda la Gioconda – L.H.O.O.Q. (il suono di tali lettere se lette in sequenza in lingua francese “Elle a chaud au cul”, restituiscono la frase “Lei ha caldo al culo”). La Monna Lisa è stata speso sospettata di essere il ritratto di un giovane uomo e aggiungendo baffi e pizzetto alla sua riproduzione Duchamp ha posto enfasi sull’androginia del modello. In tal senso, già nel 1910 in “Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci”, Freud scrive che “soltanto l’unione del maschile e del femminile può degnamente rappresentare la perfezione umana”.

Duchamp apre una strada amplissima, che ha una grande influenza sulle varie correnti del contemporaneo, dalla Minimal Art all’arte concettuale, dalla body art all’arte povera, dal neodadaismo alla Op Art, fino all’arte cinetica. Con Duchamp, l’opera d’arte – e la sua negazione – interloquiscono strettamente con la filosofia e con il pensiero sociale e politico, fino a costituire persino un precedente della Pop art e ad essere oggetto di interpretazioni differenziate, come “opera aperta”.  Duchamp ci indica che il fine dell’attività artistica non è l’opera ma la libertà, finalità non dissimile a quella che si propone la psicoanalisi che tende a liberare l’uomo dai vincoli che si autoimpone.

Riferimenti bibliografici

  • Cabanne P. (1987). Dialogue with Marcel Duchamp. New York, Campo Press.
  • Calvesi M. (2016) Duchamp invisibile. Maretti editore.
  • Botella C., Botella S. (2001). La raffigurabilità psichica. Borla, Roma, 2004.
  • Bion W.R. (1962). Trasformazioni. Armando, Roma, 1983.
  • Bion W. R. (1970). Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 1973.
  • Bion W. R. (1992). Cogitations. Armando, Roma, 1996.
  • Freud, S., 1910. Un ricordo di infanzia di Leonardo da Vinci. Opere vol. 6. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Lebel R. (1959). Sur Marcel Duchamp. Parigi
  • Paz O. (1990). Apparenza Nuda. L’opera di Marcel Duchamp. Abscondita, Milano (2000).
  • Perroti P. (1975). La porta di Duchamp in Quadrangolo Anno 2, n. 2, Roma
  • Ferlito G. (1991). Marcel Duchamp e la passione per gli scacchi, in Lo scacco, n. 9. Torino.
  • Swartz A. (1968). Marcel Duchamp. Fratelli Fabbri. Milano
  • Swartz A. (1973). L’alchimista messo a nudo nello scapolo, anche, in catalogo della mostra “La delicata scacchiera. Marcel Duchamp: 1902 – 1968, Napoli Palazzo Reale

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