Hikikomori: quando ci si ritira dal mondo

Hikikomori: quando ci si ritira dal mondo

Con “Hikikomori” si intende descrivere sia la condizione, che il soggetto che soffre di ritiro sociale acuto.

Il termine fu coniato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito nel 1998, e da lui reso famoso attraverso interviste televisive e articoli di giornale. Si potrebbe tradurre con “ritiro sociale”, ma si è preferito non tradurre il termine ed usare la parola giapponese per identificare questa particolare forma di ritiro sociale. Il suo uso e significato si è esteso anche in America e ad oggi il numero di articoli che prendono in considerazione il fenomeno è in continua crescita in tutto il mondo, suscitando l’attenzione di ricercatori e esperti psicologi e antropologi.

Lo stile di vita dell’Hikikomori

La prima immagine che viene in mente è quella di un giovane uomo giapponese, isolato nella sua stanza all’interno della casa di famiglia per anni e anni, rifiutandosi di parlare, interagire o essere visto da chiunque, a volte persino dalla sua propria famiglia: i genitori lasciano cibo al di fuori della sua porta e lui fa lo stesso con i rifiuti che produce.

In passato potrebbe aver trascorso il suo tempo giocando a videogiochi o su chat-room, ma queste attività non lo entusiasmano più. Adesso lui non fa altro che fissare il muro.

Hikikomori. Il mondo del perfetto isolamento.

Seppur questa descrizione di hikikomori non è di per sé scorretta, è però limitata in quanto descrive solo un piccolo campione di individui. E’ stato quindi necessario pensare ad una definizione che rendesse giustizia delle molteplici caratteristiche e dei diversi tratti degli hikikomori.

Nel libro in cui per primo parla del problema (cit) Saito descrive il ritiro sociale come il disturbo e ogni altro sintomo psichiatrico associato come espressione di questo disturbo. Psichiatra di formazione psicanalitica, Saito considera l’hikikomori come un problema dell’adolescenza, e lo collega allo slittamento del periodo adolescenziale fino ai trenta anni di vita se non oltre. L’unica cura in questa ottica è lo sviluppo di un ruolo sociale che porti verso la maturità.

In realtà sono stati fatti diversi tentativi per definire a livello comportamentale la condizione di hikikomori, alcuni in apparenza in contrasto con l’eziologia primariamente proposta e la definizione.

L’Hikikomori è una patologia?

La migliore definizione comportamentale è attualmente quella proposta da Teo e Gaw (2010) che include i costrutti centrali del disturbo in sei criteri:

  1. Trascorrere quasi tutto il giorno a casa, quasi ogni giorno.
  2. Ostinato evitamento delle situazioni sociali.
  3. Ostinato evitamento delle relazioni sociali.
  4. Provare stress o difficoltà nello svolgere attività quotidiane.
  5. Durata di almeno sei mesi.
  6. Il disturbo non è meglio spiegato da altri disturbi come ansia sociale, disturbo depressivo maggiore, schizofrenia o disturbo evitante di personalità.

Il punto 6, ovvero l’assenza di altre patologie psichiatriche è il punto più controverso. Infatti dalle ricerche emergono evidenze che collocano la presenza di altri disturbi in persone che soddisfano i primi 5 punti, in percentuali spesso più del 50%.

Uno studio su 337 pazienti “hikikomori” ha trovato addirittura il 99,7% di comorbilità.

Questo spiega perché l’evitamento e la reclusione volontaria sono sintomi presenti in molti disturbi già ampiamente studiati quali i disturbi ansiosi, depressivi, psicotici e di personalità.

La domanda quindi é se abbia un senso clinico o meno identificare hikikomori come una patologia a se stante oppure collocarla all’interno di altre patologie più ampiamente studiate.

Perché prestare attenzione al fenomeno

Non ci dobbiamo dimenticare che ogni etichetta non è altro che un termine coniato da clinici e ricercatori che deve servire due obiettivi principali:

  1. Descrivere la condizione, quindi avere un buon potere discriminatorio rispetto ad altre.
  2. Individuare il trattamento che più di altri può portare ad un successo terapeutico.

Appare evidente come risulti necessario continuare a svolgere una accurata ricerca e empirica per fornire validità e utilità clinica a questa etichetta diagnostica.

Libera traduzione dell’articolo di Alexander Krieg.


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