È successo per te, non a te

È successo per te, non a te

Tantissime volte leggo frasi di questo tipo: “Perché è successo proprio a me?”.

Vorrei riflettere insieme a voi su quello che questa frase nasconde fra le righe.

  1. Da questa frase emerge un totale senso di non controllo della propria vita, come se gli eventi ci piombassero addosso e noi fossimo del tutto impotenti nel poter fare qualcosa per prevenire o uscire da una situazione spiacevole.
  2. Da questa frase emerge un senso di completa passività: non sei tu l’attore della tua vita, chi muove le fila, ma è come se ti sentissi un burattino mosso da qualcosa di diverso. Chi lo sa, il destino forse? Mah.
  3. La conseguenza è ovviamente un senso di totale deresponsabilizzazione della persona che non si sente parte attiva della propria esistenza. L’individuo non sente di dover far nulla per cambiare la propria situazione di sofferenza, perché impotente di fronte al susseguirsi degli eventi.

Eccolo lì che si instaura il ruolo della vittima, inaiutabile, calamita di tutti i mali del mondo.

E’ logico che il risultato è un senso totale di impotenza e di vuoto, di disperazione. Sarei anche io disperata se pensassi di non avere il minimo controllo su ciò che mi accade e la minima possibilità di tirarmi fuori da ciò che magari mi accade ma che non mi sta bene.

Ora, ti suggerisco di rimodulare la frase da “è successo a me” a “è successo con me”.

E’ successo con me

In che senso con te?

Se le cose “succedono con te” e non “a te”, spostiamo l’accento e la responsabilità degli eventi, ma così anche la possibilità di spiegarceli e controllarli, dall’esterno all’interno. Dall’altro a me.

E’ successo con me significa che anche io ho un ruolo in quello che mi è accaduto. E ad avere questo ruolo non sono chiaramente io che amo tirarmi la zappa sui piedi, ma io che non conoscendo il mio funzionamento, mi sono lasciato travolgere dagli eventi.

Ecco che allora è successo con me significa che è successo anche per via di come funziono io, per il mio modo di fare esperienza e stare nel mondo, nel rapporto con l’altro, per il mio modo di mantenere il senso di stabilità personale.

La domanda da farsi è questa:

  1. “Che ruolo ho avuto io nell’instaurarsi di una dinamica relazionale disfunzionale, che mi ha fatto poi soffrire?”
  2. “Che cosa ho fatto, oppure non ho fatto, per interrompere questa dinamica?
  3. “Perché sono rimasto lì?”

E così torna la possibilità di avere:

  • Controllo su ciò che ci accade.
  • Possibilità di prevenire in futuro situazioni già viste e spiacevoli proprio perché abbiamo compreso che noi in quello che è accaduto abbiamo avuto il nostro ruolo.
  • Possibilità, anche qualora perdessimo nuovamente la bussola della nostra consapevolezza, di tirarci fuori da una relazione che ormai sappiamo non portarci alla felicità.

Torniamo così ad avere la forza, la forza di essere consapevoli e responsabile della nostra esistenza, consapevoli del ruolo che abbiamo avuto nelle nostre cadute così come nei nostri successi.

Non si tratta di autoflagellarsi e di ricoprirsi di colpe, ma di rientrare in sé stessi, nel proprio personaggio, da attivo e non da passivo. Da persona che non subisce, ma fa, vive.

Si cresce, si mettono sul piatto i propri punti di debolezza e le proprie risorse, ci si mette in gioco davvero, si prende la vita in mano  e ci si apre alla vita vera, all’amarsi un po’ di più.


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